
Gli insuperabili ep.9
Un podcast prodotto dal consorzio Parsifal
A volte mi diverto cercando di dare una definizione al genio o all’arte. Chiedo agli amici, spulcio su google tra le citazioni autorevoli che provano, con le parole, a descrivere due concetti così complessi. È un gioco, un esercizio di stile anche per me che con le parole mi limito a fare il giocoliere. In fin dei conti se arte e genialità si potessero definire con semplicità forse perderebbero motivo di esistere. Non è proprio la parafrasi a uccidere alla poesia? Quel “che cosa avrà voluto dire?” davanti un’opera astratta che la riconduce violentemente a una dimensione terrena facendole così perdere tutta la magia?
Col tempo mi sono convinto sempre di più che è impossibile arrivare a una risposta corretta partendo da un interrogativo sbagliato. E cercare di comprendere il genio, riportarlo a una natura che conosciamo, anziché goderne è un presupposto errato. Per questo oggi mi limiterò a raccontarvi dei fatti, le gesta di un uomo che forse non si è capito neppure da solo e che, io ne sono convinto, non è possibile spiegare.
Gli Insuperabili episodio 9 – Storia di Django Reinhardt
Che Django fosse un talento puro lo si era capito da subito. Già da piccolissimo, tra un furto di polli e una scorribanda in centro, suonava da dio. Violino, chitarra ma soprattutto il banjo con il quale riusciva a esprimere ritmo, melodia e armonia su un unico strumento.
Lui che in mezzo alla musica ci era nato perché tra le carovane manouche, che si erano spostate dal Belgio verso un quartiere-discarica alle porte di Parigi, si suonava di continuo.
Suo padre che poi lo abbandonerà relativamente presto faceva mille lavori ma suonava insieme ai suoi 7 fratelli e sua madre invece, dalla quale ha preso il cognome, era un’acrobata e una ballerina gitana. Ed è bello perché i gitani, così come per la lingua, hanno una musica tutta loro. Una grammatica musicale in costante evoluzione che ad ogni tappa del loro eterno peregrinare prendere qualcosa del posto e lo integra con il passato. Le registrazioni non esistono, perché i vinili nelle carovane sono inascoltabili a causa delle vibrazioni e fino a che non viene inventata la musicassetta la musica è solo live. Mai uguale a se stessa.
Ma torniamo a noi. Django, lo zingaro, inizia a suonare e si fa notare. Non gli sembra vero poter guadagnare esibendosi davanti un pubblico. Lo fa prima col cappello, per le vie di Parigi e poi nei club quando, ancor prima di diventare maggiorenne, viene ingaggiato da diverse band. E i soldi che guadagna li spende al gioco o per goliardate giustificabili per un ragazzo poco più che adolescente ma perlomeno non ruba più. Poi un giorno, poco dopo aver firmato un contratto importante, rincasa. La carovana è piena di fiori sintetici che sua moglie, Bella Baumgartner, ha preparato per una cerimonia funebre poi di colpo una scintilla scoppia ed è caos. La carovana prende improvvisamente fuoco, tutti riescono a uscire ma non Django che perde i sensi vicino il suo banjo. Solo i cugini, che gli saranno compagni per tutta la vita, riescono ad avvolgerlo con una coperta e a salvargli la vita. Django sopravvive ma il fuoco gli imprime marchi indelebili. La sua mano sinistra è completamente ustionata e tutti i medici sentenziano che sarà inutilizzabile. Alcuni propongono l’amputazione, altri controbattono con la rassegnazione. Ma Django e i gitani non si fidano dei medici e vagare è nella loro natura, trovano così un professionista che gli propone un metodo sperimentale. Dopo 18 mesi di operazioni e fisioterapia la mano di Django torna a correre su una tastiera ma non è più quella del banjo, Django imbraccia la chitarra (uno strumento decisamente più morbido) ma con mignolo e anulare saldati tra loro, dall’ustione o dal nitrato d’argento, non lo sappiamo. Django deve riscrivere il suo modo di suonare perché può farlo con solo due dita oltre il pollice. Solo anni più avanti poggia le due dita unite sulla 1° corda, quella più acuta della chitarra, e dà vita alla sua rullata di scala cromatica che diventerà un marchio di fabbrica del suo modo di suonare.
Così come al cuore, anche al talento non si comanda e Django – che ha ri-imparato a suonare – torna a farlo più intensamente di prima. Il suo matrimonio è andato a rotoli ma poco importa. È il 1930 e dal contrabbassista Luis Vola arriva la proposta di tornare a sul palco insieme, Vola è talmente motivato a voler suonare con Django che lo invita anche ad andare ad abitare a Cannes, presso la sua villa. La convivenza è prolifica ma addirittura il sindaco deve porre fine a quel connubio perché tutti i cugini di Django con le rispettive famiglie hanno ben pensato di accettare il suo invito a trasferirsi nel giardino di Vola trasformandolo, in men che non si dica, in una discarica a cielo aperto. I piccoli furti nella casa di Vola invece ve li lascio immaginare perché non sono certo un colpo di scena e rientrano in quella parte sottaciuta di accordo, come una clausola da accettare pur di condividere il palco.
Dopo l’esperienza con Vola, Django, la sua nuova moglie Nuaguine, e suo fratello esplorano il sud della Francia, dormono per strada, sulle panchine, fino a quando un nuovo incontro gli destabilizza la vita. Emile Savitry, un fotografo e artista francese, riconosce Django e tra i due nasce una sorta di amicizia. Ma il vero incontro è con i dischi di Emilie, con loro Django conosce Duke Ellington, Joe Venuti e Louis Armstrong. Passa ore ad ascoltarli e imbracciata la chitarra mescola la sua sua cultura gipsy con quelle sonorità d’oltreoceano dal profumo di libertà.
È il 1934 però l’anno di svolta. Django è un musicista famoso a Parigi, quando essere famosi è ben diverso da quello che intendiamo oggi. La musica si fa nei club, è per pochi eletti e il circuito è abbastanza piccolo e lui è conosciuto ma c’è un altro musicista che si sta facendo notare che condivide con Django la sola caratteristica dell’essere un autodidatta. È Stéphane Grappelli, o Grappelli per meglio dire visto le sue origini Italiane. I due si trovano subito, si capiscono prima con la musica che con le parole. Quasi casualmente nasce il Le Quintette du Hot Club de France, un ensemble che suona jazz con soli strumenti a corde.
È una vera e propria rivoluzione. Django e Stéphane si capiscono a meraviglia, la loro musica è anarchica e libera. Una volta mentre improvvisano su armonie particolari, al termine del brano, Django si avvicina timido al suo collega e ingenuamente gli domanda: Stéphane, ma cos’è una scala? Django non sapeva nulla di teoria musicale e non prendeva la metropolitana perché non sapeva leggere e questo gli rendeva impossibile capire quando era il momento di scendere.
Quello della scala però è solo uno degli episodi divertenti che riguarda il rapporto tra Django e Stéphane perché poco dopo, prima della firma di un importante accordo per una tournée, la scena deve essere andata più o meno così. Tu stai tranquillo, io leggo il contratto e se dico che è ok tu lo prendi, fai un po’ di scena, e poi dici che va bene anche per te. Un piano, basato su un bluff, tutto sommato semplice da comprendere. Ma Django i bluff li conosceva bene e così, dopo l’ok di Stéphane, afferra i fogli, scorre i singoli paragrafi con il dito, poi si sofferma su uno e grida: a me questo non va bene. Panico tra i presenti. Tutti si precipitano per assecondare le sue richieste ma peccato fosse la clausola in cui l’organizzazione si impegnava a pagare le spese di trasferta. Così ritrattano tutto e con qualche capriola retorica firmano l’accordo.
Quelli sono gli anni dei primi dischi e delle tappe internazionali. Arrivano anche i soldi che Django spende per inseguire le sue passioni. Il gioco, la pesca, la pittura, il biliardo e le auto. Per quello che riguarda le auto voglio raccontarvi una cosa. Django ignorava completamente che le auto avessero bisogno di manutenzione, anche quella ordinaria, credo non abbia mai fatto controllare acqua e olio alle sue vetture o ne abbia assicurata una.
Una volta una delle sue auto prese fuoco e lui la gettò nel mare. Quando andò in Inghilterra per la prima volta assunse anche un autista al quale poi chiese di seguirlo in Francia. Peccato che il povero uomo, arrivato al campo rom alla guida di una Buick bianca, si ritrovò in men che non si dica circondato da carovane e con l’auto stracolma di piccoli gitani urlanti. È ovvio, la notte stessa scappò. Django si spostava così, con un “macchinone” in testa e poi una fila enorme di case su ruote. Dopo la fuga dell’autista decise di mettersi lui alla guida. Senza patente. È ovvio.
Poi però scoppia la guerra. Django e Stéphane si separano, lui torna in Francia mentre Stéphane sceglie di restare in Inghilterra. Parigi diventa velocemente una città di riposo per le truppe tedesche che però hanno ordini chiari. Gli zingari devono essere deportati e il Jazz, la musica dei neri e degli ebrei, è assolutamente da bandire. La situazione per Django non si prospetta semplice eppure è proprio la musica a salvargli la vita. Il suo modo di suonare entusiasmo persino i generali nazisti che non solo lo lasciano libero ma che lo invitano, contro ogni disposizione di Hitler, a esibirsi in Germania una volta terminato il conflitto. C’è da dire che Django tenta più volte la fuga verso la Svizzera ma nessuno dei suoi tentativi va a buon fine.
Terminata la guerra si ritrovano con Stéphane ma non sono anni facili, la crisi economica impone la chiusura dei Cabaret e così Django si dedica ai suoi hobbies, e costruisce anche una buona reputazione nel mondo della pittura Naif, dipinge principalmente nudi femminili e alcuni dei suoi quadri sono stati anche esposti a Parigi. Solo nel 1946 arriva un’offerta irrinunciabile. Django e Stéphane ricevono un invito da Duke Ellington per esibirsi negli Stati Uniti, sono i primi non americani chiamati per suonare Jazz nella patria di quel genere musicale.
Django però a Stéphane non dice nulla, porta ancora rancore per un episodio del tutto irrilevante e così non estende l’invito per gli States. Parte senza nulla se non i vestiti che indossa. Non porta neanche il passaporto con sé convinto che in aeroporto l’avrebbero riconosciuto e lasciato passare per la sua fama. Non è così, il manager deve fare una corsa per prendere il documento e non perdere l’aereo. Ma neppure la chitarra. Era convinto che i liutai americani avrebbero fatto la fila pur di farlo suonare con una loro chitarra così lascia la sua a casa sicuro di trovare una calca all’uscita dell’aereo. Quando si abbassa la scaletta però non c’è nessuno se non un’auto che lo avrebbe portato in hotel. Così con una chitarra di fortuna le prime tappe del tour vanno benissimo ma la sera più importante a pochi minuti dall’apertura del sipario nessuno sa dove sia. Era anche quella un’abitudine per lui, appena guadagnava qualche soldo spariva per ore se non giorni dimenticandosi di qualsiasi impegno preso. Così si presenta con tre ore ore di ritardo giustificandosi dicendo che aveva incontrato un francese e, per la nostalgia di casa, avevano perso il senso del tempo smarrendosi in chiacchiere nostalgiche sulla bellezza di Parigi. La stampa, così come gli operatori dell’aeroporto, non sono clementi.
Torna così in Europa, dipinge e ritrovato ancora una volta Stéphane che intanto gli ha insegnato a scrivere perlomeno il suo nome per firmare gli autografi, intraprendono un’altra torune non felice in Italia.
Così esce un po’ fuori dal panorama jazzistico. Le influenze americane lo hanno segnato anche se non si può dire il contrario. In molti rivorrebbero il vecchio Django e qualcuno ha preso l’abitudine di presentarlo quasi come fosse un fenomeno da baraccone.
Nel 1951 viene scritturato dal Club Saint-Germain-des-Prés dove ritrova un po’ di entusiasmo solo grazie alla presenza di giovani musicisti che vedono in lui un mito per quanto un po’ attempato. In quegli anni si trasferisce vicino Samois sur le seine dove muore il 16 maggio del 53. Si accascia a terra nel bar in cui era solito fare colazione. Un’emorragia cerebrale, forse anche curabile se solo si fosse fidato un po’ di più dei medici.
Django, l’inventore del Gipsy Jazz, oggi è omaggiato e ricordato. Le citazioni su di lui sono moltissime così come i festival a lui dedicati. C’è l’abitudine di celebrare l’anniversario della sua morte con una processione durante la quale anziché lasciare fiori sulla sua tomba le persone posano un plettro.
Grappelli, il suo grande amico e genio indubbiamente anche lui, ha trovato in Django il coraggio di esplorare un mondo che neppure considerava. «Esitavo allora a fare musica moderna sul più classico degli strumenti, il violino. Ma la convinzione e il genio di Django sgombrarono tutti i miei dubbi”. La convinzione e il genio.
Come detto questo racconto non ha la pretesa di spiegarvi il genio di Django, sarebbe impossibile e probabilmente inutile. Spero di essere riuscito però a raccontarvi il come e il perché – aldilà del del jazz e della stessa cultura musicale – sia diventato un simbolo.
Del genio però qualcosa l’ho capita. Studiando la vita di un uomo che non ha studiato, ho imparato che il talento raramente è dove ci aspetteremmo di trovarlo (oggi chi suggerirebbe a un bambino con tre dita di suonare la chitarra?) e che la volontà, così come la pratica, sono le porte d’accesso per la genialità.
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