
Sarebbe bello se le barriere fossero sempre nette, se il campo da gioco della vita fosse delimitato da due colori e casomai da 64 caselle al di là delle quali non è contemplato andare.
Purtroppo o per fortuna non viviamo su una scacchiera, abitiamo un mondo nel quale i colori si mischiano, i contorni sfumano. E il fato gioca un ruolo tanto importante quanto quello del contesto.
Per tornare agli scacchi però è quasi inutile dire che tra tutti i pezzi i miei preferiti sono i pedoni. Soggetti apparentemente innocui e anonimi, perfette vittime sacrificali di una strategia più ampia.
Di loro mi hanno sempre colpito due cose. Una è quella strana regola per la quale, se raggiungono il fondo della scacchiera (cosa rara in una partita tra giocatori veri) possono trasformarsi in qualsiasi altro pezzo tranne il re. Di re non possono essercene due. Ma soprattutto – e vengo al secondo punto – che sono gli unici pezzi incapaci di tornare indietro. Il loro movimento è irrevocabile. Solo in avanti e solo un casella per volta, un passo dietro l’altro.
Vi dico questo perché la storia di oggi è così. È la storia di un pedone che avrebbe voluto tornare indietro perché, raggiunto il fondo della scacchiera, è stato creduto da tutti un Re.
Gli insuperabili episodio 7 – Storia di Paul Morphy
È domenica pomeriggio e nel salotto della ricca abitazione di Royal Street a New Orleans, come tutte le domeniche dopo pranzo, il giudice Alonzo Morphy gioca a scacchi con suo fratello Ernest. Sulle sue ginocchia è seduto Paul, un ragazzino di poco più di 6 anni che ha l’abitudine di attendere con ansia quel momento per sentirsi tra i grandi. Gli era stato permesso assistere purché restasse in rigoroso silenzio e così aveva imparato le regole di quello strano gioco, guardando. Quel giorno dopo dei momenti di interminabili silenzi, Alonzo propone di chiudere la partita con un pareggio, Ernest – convinto che non ci sia altra soluzione – accetta e inizia a risistemare i pezzi. È a quel punto che, quasi timidamente, Paul prende la parola. Sostiene che suo zio in realtà avrebbe avuto un’opportunità di vittoria. I due adulti si guardano sbigottiti, Paul così riposiziona i pezzi sulla scacchiera e dimostra che, sacrificando la torre, effettivamente lo zio Ernest sarebbe riuscito a dare “scacco matto”. In quel preciso momento sboccia il talento di Paul Morphy.
Paul inizia così a giocare abitualmente e quando sconfigge con facilità sia il papà che lo zio, che al tempo era tra i più forti giocatori della Louisiana, i pochi dubbi residui crollano. Ernest, lo prende sotto la sua ala protettrice e inizia a organizzare per lui degli incontri/esibizione in tutto lo Stato. Paul vince ogni match con facilità. Per avere più stimoli gioca delle simultanee e, come se non bastasse, lo fa alla cieca.
Vince sempre, con chiunque ma la sua strada è tracciata dal cognome che indossa e gli scacchi sono solo un’interruzione saltuaria per trascorrere il tempo. Così – come previsto da sempre – si iscrive presso la facoltà di Legge dell’università della Louisiana. Il destino lo vorrebbe avvocato, come suo padre.
Infatti la sua memoria e la sua intelligenza lo portano a concludere il percorso di studi in tempi brevissimi, impara diverse lingue e – solo una volta laureato, in attesa di poter iniziare a esercitare la professione – torna a giocare.
Viene invitato al primo congresso di Scacchi americano a New York, nel 1858, e lo vince sconfiggendo in finale il maestro Louis Paulsen con un fragoroso 6 a 2 . Viene così eletto, per acclamazione, campione degli Stati Uniti.
Voglio raccontarvi un aneddoto su quella partita. In quegli anni si giocava senza orologio e quindi non era raro che i match durassero ore se non addirittura giorni. Durante quella finale: Paul e Louis restarono 11 ore senza dire una parola o fare una mossa. Alla fine, Morphy, che era di una pazienza eroica, lancia un’occhiata ironica all’avversario e Paulsen, senza scomporsi, dice: «Ah, tocca a me?»
Gli scacchi all’epoca non erano visti di buon occhio. Certo, generavano un gran fascino anche in virtù del proliferare dei tabloid sempre a caccia di nuove notizie, eppure erano paragonati al gioco d’azzardo. È per questo che la mamma di Paul, musicista eccezionale, cerca costantemente di limitare l’attività del figlio ribadendo, ogni volta che ne ha l’occasione, che gli scacchi non sono una professione fino a strappargli la promessa che – per nessun motivo al mondo – lo sarebbero diventati.
Per onorare quel giuramento Paul non accetterà mai premi in denaro in tutta la sua carriera. Una scelta resa possibile anche da una tranquillità economica derivante dalla cospicua eredità lasciata dal padre alla famiglia dopo la morte. Precisamente 146.162,54 dollari, una montagna di soldi.
Dopo il congresso Paul resta a New York e gioca 261 partite. Batte praticamente tutti i giocatori sul suolo americano e nessuno vuole più confrontarsi con lui.
Paul, non ancora ventenne, cerca nuovi stimoli e li trova nell’idea di imbarcarsi verso l’Europa per sfidare i più grandi giocatori della terra. Lui vorrebbe salpare ma deve affrontare l’opinione contrastante della mamma, preoccupata per il futuro di un figlio che non vuole giocatore d’azzardo e di suo cognato, gestore delle finanze familiari, preoccupato per l’aspetto economico.
Qualcosa però lo attrae più di ogni altra. Crede che l’unico che possa appagare la sua fame sia Howard Staunton, detentore del titolo di campione del mondo dal 1844 al 1851. E così parte con una missione.
Invita ripetutamente Staunton a un confronto ma lui declina ripetutamente l’invito, arroccando scuse improbabili e preferendo provocare Paul sui giornali piuttosto che sfidandolo davanti una scacchiera.
Così Paul, che nutre ancora la speranza di un incontro con Staunton – quasi per inerzia – gioca nuovi incontri. A Londra sconfigge di nuovo Lowenthal e il vecchio Owen. Non soddisfatto si dirige a Parigi dove batte Harrwitz; il campione del mondo Anderssen e Mongredien.
Lui nei suoi incontri, non insegue la vittoria, cerca più che altro un’estetica di gioco. Per lui gli scacchi non sono un lavoro ma neppure un semplice passatempo. Ha una visione filosofica del gioco al quale attribuisce un potere generativo simile a quello dell’arte. Giocare equivale a creare ma gli scacchi si giocano in due ed ecco l’importanza di un partner adeguato e l’ossessione per Staunton.
Dopo aver sconfitto chiunque, chiunque tranne Staunton che non ha accettato mai la sfida, il 30 aprile del 58 torna a New Orleans. Ad accoglierlo, inaspettatamente, è una folla in delirio. Quando la nave attracca sono tutti presenti: ci sono bandiere, uomini e donne in fila per un autografo, le autorità e una miriade di giornalisti ansiosi di portare a casa una dichiarazione del nuovo campione.
Paul, la cui carriera in Europa era durata appena 18 mesi, il tempo di circa 500 partite, si ritrova inaspettatamente celebrato ben oltre quello che si sarebbe aspettato. Perché?
La risposta la possiamo rintracciare in un motivo squisitamente politico. Era la prima volta nella storia che un americano dimostrava di essere non soltanto uguale ma superiore, nel suo campo, a qualsiasi rappresentante del vecchio mondo; Morphy – senza accorgersene – aveva elevato di un cubito la grandezza della civiltà americana.
Paul, tornato a casa, prende consapevolezza che non può più giocare come avrebbe voluto. È sopraffatto dalle pressioni simboliche di quel suo muovere i pezzi: il professionismo, la competizione, il ruolo politico… niente di tutto questo rientra nella sua concezione e così, di colpo, smette di giocare. Prova a tornare indietro verso la vita normale e agiata per la quale credeva di essere nato.
Apre quindi uno studio da avvocato ma, a differenza di quello del padre, il suo viene poco frequentato. Nessuno vuole farsi difendere da lui, in fin dei conti – per quanto famoso – come può il campione del mondo di scacchi essere anche un buon legale? Nonostante ciò trova il coraggio per dichiararsi alla donna della quale si era invaghito ma viene rifiutato. L’accusa è la stessa: cosa vuoi da me? Sei solo un giocatore di scacchi.
Intanto scoppia la guerra di Secessione e le posizioni di Morphy, ricco uomo del sud, non sono difficili da immaginare così si rifugia nuovamente a Parigi e torna a New Orleans solo nel 1866.
Il conflitto, il successo scacchistico e l’insuccesso totale nel suo disperato tentativo di una vita normale portano la sua stabilità psicologica a vacillare. Terminata la guerra infatti inizia a credere che suo cognato, l’amministratore dei beni di famiglia, voglia sottrargli tutti i soldi. È contro di lui che imbraccia, perdendola, l’unica causa della sua attività professionale. Crede di essere seguito e che qualcuno voglia ucciderlo. Dubita di tutti. Pensa addirittura che Binder, un fedele amico di suo cognato, di nascosto, gli distrugga i completi che conserva gelosamente nell’armadio così un giorno irrompe in casa sua e lo aggredisce.
Paul, dopo l’aggressione, finisce col chiudersi in in sé stesso. Non gli resta che dormire fino a tardi ogni mattina poi puntualmente, sempre a mezzogiorno, vestito di tutto punto, passeggiare nel parco. Il pomeriggio lo trascorre con la madre fino a sera quando si reca, da solo, a teatro.
Dopo la sua morte, avvenuta nella casa di Royal Street il 10 luglio del 1884, in molti hanno provato a tracciare il profilo psicologico di quello che ancora oggi è considerato tra i più forti giocatori di scacchi mai esistiti.
Gli studi sono stati impietosi nei suo confronti. Ernest Jones, uno psicoanalista britannico biografo di Freud, realizza addirittura un saggio dal titolo “The problem of Paul Morphy”. Ruben Fine, scacchista e psicologo, nel 1956 rincara la dose con il suo volume “la psicologia del giocatore di scacchi” nel quale dedica un intero capitolo a Paul. Entrambi concordano nel definirlo uno squilibrato psicopatico e nel leggere il gioco degli scacchi come una costante idealizzazione di istinti bellici, omosessuali e di rivalità con la figura paterna.
Le ultime parole di Fine che lo riguardano recitano così:
La rivalità di Paul Morphy col padre fu espressa dapprima negli scacchi e poi controllata per mezzo di una identificazione psicotica regressiva.
Durante la sua attività scacchistica egli represse completamente la sua aggressività. Un’ulteriore repressione si verificò nella psicosi, messa a nudo soltanto dall’aggressione omosessuale a Binder, l’uomo che secondo lui avrebbe preso i suoi vestiti; cioè l’avrebbe smascherato. La sua paranoia era anche una manifestazione regressiva della paura di essere aggredito che negli scacchi era stata sublimata. Non riuscendo ad accettare il mondo fantastico degli scacchi, perse la capacità di distinguere tra fantasia e realtà. Malgrado tutto questo, l’io rimase sufficientemente integro da permettergli di non essere ricoverato in una clinica.
Ecco, io non sono uno psicologo. Non ho alcuna competenza in materia. Ma quello che vedo, più che un uomo pazzo è un uomo solo. Non lo so se la psicosi di Paul ha sempre albergato in lui, se è esplosa quando ha smesso di giocare o se invece è stata inventata di sana pianta nel goffo tentativo di dare spiegazione al genio.
Quello che è certo è che è stato un insuperabile sulla scacchiera, superato dal suo stesso talento e da quello che questo ha generato.
Perché Paul è stato l’eroe di cui l’America aveva bisogno ma non quello che meritava perché è stato eletto Re senza che lui lo volesse, e costretto a vivere in quelle 64 caselle che lo hanno reso famoso e logorato.
Per preparare la puntata ho chiesto alla Federazione Italiana Scacchi se avesse, tra i tesserati, dei giocatori disabili. Mi hanno fornito il contatto di Ruben e Claudio. Li ho quindi contatti per un’intervista con l’idea di inserire alcuni dei loro interventi direttamente all’interno dell’episodio. Solo dopo averle registrate però, per motivi narrativi, mi sono reso conto che non era possibile farlo.
Quello che mi hanno detto, oltre che utile per la stesura dello script, credo rappresenti comunque un contenuto prezioso. Per questo qui sotto vi riporto, in forma integrale, le due interviste/chiacchierate che ci siamo fatti.
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