
“Per pensare ci vogliono le parole, perché la gente pensa che le parole sono uno strumento attraverso cui tu esprimi i pensieri. Non è vero. Tu puoi pensare limitatamente alle parole che conosci. Allora i greci avevano 84mila parole mentre i latini ne avevano solo 4 mila perché non glie ne servivano di più. Una volta che avevano dato ordini agli operai per fare gli impianti idraulici, con i loro imperativi e gli ablativi assoluti, e un po’ di ordini militari, gli bastavano 4 mila parole. Infatti non c’è filosofia latina, c’è una nota a piè di pagina della filosofia greca.”
Queste frasi sono di Galimberti, anche se il concetto è di Heidegger, e a me sono sempre piaciute. In un certo ho senso ho anche voluto crederci perché le ho sempre interpretate come un incitamento allo studio e una dichiarazione d’amore alle parole. Poi però sono inciampato su una storia che mi ha costretto ad osservarla da una prospettiva diversa, a interrogarmi più profondamente. Se è vero che si può pensare limitatamente alle parole che si conoscono, cosa accade in chi non può parlare? Cosa c’è oltre i pensieri?
È questa storia oggi la voglio condividere, una storia di concetti non pensati. Di destini incrociati. Di parole sul palmo delle mani e idee che, mai come in questo caso, si possono toccare.
Gli insuperabili episodio 5. Storia di Helen Keller e Anne Sullivan.
Siamo in Alabama. È il febbraio del 1882 e la piccola Helen Keller ha 19 mesi ed è nella culla della sua cameretta. Il medico se n’è appena andato dicendo che quella brutta congestione dello stomaco e del cervello non era più un pericolo.
Il clima torna sereno ma di colpo l’urlo della mamma di Helen squarcia il silenzio riconquistato. La febbre che aveva colpito la piccola era sì scomparsa ma non senza lasciare segni. La vista e l’udito di Helen sono scappati via insieme all’infezione.
Sono gli ultimi anni dell’800 e pochi sanno come rapportarsi con le persone sordocieche e per i Keller la situazione precipita vertiginosamente. Helen cresce veloce nel silenzio, vaga in casa senza poter vedere o sentire e i suoi genitori sono impossibilitati a comunicarle anche la più semplice delle indicazioni. Persino un gesto d’affetto diventa difficile da trasmettere. Ma il problema che vivono il signor e la signora Keller per Helen è più ingombrante. L’unico modo che lei ha per attirare l’attenzione su di sé è abbandonarsi alla violenza e agli scatti d’ira. Colpisce qualsiasi cosa o persona le capiti a portata di mano. Ma in fin dei conti – per noi – un vaso che si rompe è il rumore del vetro frantumato e i cocci sul pavimento. Lei non può percepire nulla di tutto questo.
Per affrontare la situazione i genitori le lasciano fare tutto ciò che vuole e non osano privarla neppure di quello che con la forza conquista. Helen diventa così una bambina viziata che cova livore. Nell’immobile buio in cui vive non esiste tenerezza, ma solo odio e collera.
I consulti medici intanto si accavallano fino a quando Alexander Graham Bell (quello che brevettò i disegni del telefono di Meucci per intenderci) suggerisce ai coniugi Keller di assumere come educatrice una giovane ragazza ipovedente, Anne Sullivan, che si era da poco diplomata presso la Perkins School for the Blind, il primo istituto americano per non vedenti.
Anne ha 20 anni e una sera del 1886 varca la soglia di casa Keller, in quel momento non sa che non la abbandonerà mai più.
La prima cena è emblematica. Sono tutti seduti intorno al tavolo, tutti tranne Helen che vaga tra le sedie attingendo con le mani dai piatti di ogni commensale portandosi il cibo alla bocca e senza preoccuparsi di cosa cade a terra e cosa invece riesce a ingerire. Anne capisce subito che per ottenere dei risultati deve cambiare il metodo educativo e sceglie così di imporre il proprio.
È impossibile dire ora se abbia fatto più fatica a spiegarlo ad Helen o ai suoi genitori ma dopo molte settimane di lavoro alcuni sporadici segnali di miglioramento iniziano ad arrivare.
Helen, ad esempio, anche grazie ai “no” della sua educatrice, impara a piegare il tovagliolo e a mangiare seduta. Gli scatti d’ira diminuiscono e nonostante qualche volta si lasci andare il rapporto tra le due inizia a prendere una piega di autenticità. Inizia a crearsi un’intesa che seppur in modo superficiale permette un dialogo. Le loro mani diventano i fogli sui quali scrivere, Annie dapprima inizia a tamburellare sul palmo di Helen per veicolare un messaggio, poi inizia a insegnarle l’alfabeto manuale. Helen apprende anche delle parole, ricordare una sequenza di forme diventa il suo gioco preferito ma le manca completamente il nesso tra segno e significato. Detto in altre termini: Helen riesce benissimo formulare la parola casa con i segni – e già questo è un traguardo inimmaginabile – ma non sa che a quel vocabolo corrisponde un concetto, un’idea.
Poi un giorno, davanti alla fontana del giardino, Anne lascia scorrere dell’acqua sulla mano di Helen e lei – suscitando lo stupore di tutti – pronuncia “water, water”. Sembra un miracolo. Una reminiscenza dei suoni che aveva ascoltato prima della malattia mista a delle capacità vocali che aveva sviluppato le consentono di emettere un suono ma la cosa più importante è che in quel momento conquista – per la prima volta – quel nesso che lega un’espressione a un’idea.
Helen inizia così una scalata vertiginosa, impara a leggere il braille in 4 differenti lingue, a comunicare con il linguaggio dei segni. Sostenuta da Anne e grazie a un mecenate si iscrive addirittura all’università e diviene la prima donna sordocieca d’america a laurearsi presso un college. Combatte – come avvocato – per i diritti delle donne e dei lavoratori; viene ricevuta da ben 12 presidenti degli Stati Uniti, visita 39 differenti paesi e tesse rapporti di amicizia con persone del calibro di Eleanor Roosevelt, di Charlie Chaplin, di John Rockefeller, di Albert Einstein, di Douglas Fairbanks e Mary Pickford.
Anche il suo amore per l’arte cresce con lei, scrive tantissimi libri e non si fa mancare di assistere a concerti e spettacoli teatrali. La mia immagine preferita è di Enrico Caruso che canta per lei lasciandosi accarezzare la gola così che Helen, pur non sentendo, possa percepire le vibrazioni delle corde vocali e lasciarsi trasportare.
Helen diventa una donna eccezionale, riconosciuta in vita e celebrata dopo la sua morte che avviene il 1 giugno 1968. Anne invece muore il 20 ottobre del 1936, dando la mano a quella ragazza che per tutta la vita ha prima accudito e poi accompagnato in ogni impresa. Sono due insuperabili, un’ipovedente e una sordocieca che hanno abbattuto le barriere trasformando dei limiti in splendide virtù.
Helen è indubbiamente più famosa ma è stata Annie che le ha donato le parole, la possibilità quindi di esprimersi e, stando a Galimberti, di pensare.
Interrogarsi su cosa ci sia stato in lei quando le parole non la abitavano è stato quello che forse, in modo un po’ presuntuoso, mi ha animato in questa riflessione. Ho considerato che poteva esserci il vuoto oppure un groviglio di idee, forse non codificate o semplicemente comunicate verso l’esterno con un linguaggio impossibile da decifrare.
La stessa domanda però, per fortuna se l’è posta anche Helen. Cosa c’è dall’altra parte?.
Ha parzialmente risposto in un’intervista del 1928 della quale vi lascio l’audio integrale.
Io tradurrò le parole, voi concentratevi sulla sua voce, quella di una donna sordocieca che ha imparato a parlare poggiando le dita sulla gola della sua insegnante, cercando di capire come vibrassero le corde vocali e provando a simulare quel movimento.
Non è l’essere cieca o sorda a farmi penare.
Bensì l’estremo dispiacere di non riuscire a parlare normalmente.
Sento con tutto l’ardore quanto bene avrei potuto fare se solo avessi imparato a parlare.
Ma da questa dolorosa esperienza ho capito chiaramente quanto un essere umano possa crescere bene e sano.
Quanto i piano possano andare all’aria
e quanto la capacità di sperare sia infinita.
A me l’ultima frase basta. C’è speranza, c’è sempre stata. Se sia o meno un pensiero poco importa. Helen l’ha custodita e Annie le ha permesso di raccontarcelo.
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