
200mila. 200 mila persone stipate sugli spalti di uno stadio, e milioni per le strade, pronte a esultare davanti la loro nazionale che di lì a breve avrebbe alzato per la prima volta la coppa del mondo.
È il 16 luglio del 1950, Brasile, Rio de Janeiro, stadio Maracanà: la cattedrale metafisica del Football.
È un pomeriggio afoso e i verde oro non hanno mai vinto quel trofeo che all’epoca si chiamava coppa Rimet. Quel giorno erano però convinti che sarebbe arrivato l’agognato successo e la più grande festa che il Brasile avesse mai visto avrebbe preso vita.
Le magliette con la scritta “campeon” erano già state stampate e le prima pagine dei giornali erano già state mandate nelle tipografie per essere pronte al grande giorno ma, contro il parere di ogni pronostico, al 79esimo minuto Alcides Ghiggia, segnando il gol del 2 a 1 per l’Uruguay, sentenzia quella che, con cognizione di causa, possiamo chiamare una tragedia.
Il Brasile perde la finale e alla festa si sostituiscono le lacrime, la gioia dei 200mila e di un popolo intero, al triplice fischio, scompare.
Quel giorno lo ricordiamo come il Maracanazo, un evento che trascende la dimensione calcistica perché in Brasile il Football è sempre stato una cosa seria.
Ghiggia, il giustiziere, dirà “solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanà: Frank Sinatra, il Papa ed io.”
Ma il protagonista di questa storia, quel 16 luglio del ‘50, probabilmente non sapeva neppure si stesse giocando una finale. Era a pesca a Pau Grande, nella periferia di Rio de Janeiro, vicino casa sua, a piedi nudi come sempre e quell’aspetto da passerotto storto e smarrito. Non sapeva del mondiale e sicuramente non sapeva che proprio lui quella gioia perduta dalla sua nazione glie l’avrebbe restituita amplificata 8 anni dopo a molti chilometri da lì.
Quel ragazzo di 17 anni si chiamava Manoel Francisco dos Santos. Soprannominato da sua sorella Rosa con il nome di un passerotto e conosciuto in Brasile come l’alegria do povo, la gioia del popolo.
Noi lo ricordiamo semplicemente come Manè o, se preferite, come il numero sette: Garrincha.
Garrincha nasce nel 1933 nello stato di Rio, da un padre Indios e alcolizzato e una madre mulatta, Amaro e Maria Carolina Dos Santos. Quinto di 5 fratelli non è un ragazzo come gli altri, il suo fisico è strano.
È affetto da strabismo, la sua spina dorsale è deformata, le gambe hanno una differenza di 6 centimetri di lunghezza l’una dall’altra e le ginocchia sono terribilmente storte. La destra è affetta da valgismo, la sinistra da varismo. La poliomielite, la malnutrizione o le cattive abitudini del padre gli hanno donato un corpo tutt’altro che statuario.
Una padre che, devoto alle tradizioni indios, rifiuta l’idea di qualsiasi tipo di intervento per il figlio e sceglie di curarlo con la cachaca, un’acquavite comune in Brasile. Il risultato ovviamente non è la guarigione ma un bambino dipendente dall’alcol, già in tenerissima età.
Nonostante tutto Manoel non ci mette molto a scoprire che correre con un pallone è più divertente che nuotare nei fiumi o inseguire gli animali e inizia così a giocare a calcio. Il suo baricentro basso, quello strano fisico, lo rendono velocissimo e imprevedibile. Salta chiunque provi a fermarlo, sempre con la stessa finta, la sua finta. Sempre uguale eppure sempre differente. Disorienta e ubriaca gli avversari, si innamora del dribbling, ne abusa, ne diventa l’essenza. Con il pallone tra i piedi si diverte, si sente a casa.
A 14 anni inizia a lavorare nella fabbrica tessile di Pau grande, la stessa all’interno della quale papà Amaro, che morirà pochi anni dopo di cirrosi epatica, faceva la guardia di sicurezza. La stessa fabbrica che dava lavoro a tutta la città di Pau Grande.
La massima ambizione per chi nasce lì era diventare capo servizio o al più mirare a un ruolo da ufficio, di quelli con l’aria condizionata.
Ma quella azienda ha una squadra da calcio e Garrincha non ci mette molto a conquistarsi lì un posto da titolare. Viene licenziato dalla fabbrica e poi riassunto solo perché il suo supporto sul campo da gioco, a differenza di quello in reparto, è imprescindibile.
Dopo diversi provini con varie società viene preso dal Botafogo, la squadra di Rio con uno stipendio da 1500 cruizeros al mese, 300 in più di quanti ne prende in fabbrica. Il più felice di quel contratto è Nilton Santos, terzino del Botafogo e colonna portante della nazionale carioca, soprannominato “A Encicolopedia”, che ha dovuto affrontarlo nella partitella tra riserve e titolari. Nilton è felice perché, con Garrincha in squadra, non avrebbe più dovuto giocarci contro.
“Quando lo vidi – ricorda Santos – mi sembrava uno scherzo, Con quelle gambe storte, l’andatura da zoppo e il fisico di uno che può fare tante cose nella vita meno una: giocare al calcio. Come gli passano la palla mi fa una finta, mi sbilancia e se ne va. Nemmeno il tempo di girarmi e ha già crossato.
La seconda volta mi fa passare la palla in mezzo alle gambe. La terza mi fa un pallonetto e sento ridere i pochi spettatori allora mi incazzo e cerco di sgambettarlo, ma non riesco a prenderlo. Alla fine vado dai dirigenti e gli dico: tesseratelo subito, questo è un fenomeno.“
Garrincha vince ogni titolo possibile con il Botafogo, trascinandolo, grazie alla sua finta e alle sue giocate, ai vertici delle classifiche. La fama cresce e diventa rapidamente una celebrità. Due cose non cambiano, il suo stipendio e l’amore per le donne. Riguardo i soldi, non c mai chiesto un aumento, a lui non interessa. E quei pochi soldi che guadagna vanno sperperati nei bar di Rio. Le donne invece le ha sempre amate troppo e questo è stato un problema. Si era sposato a 19 anni con una collega della fabbrica tessile, costretto da una gravidanza inattesa, e contemporaneamente aveva intessuto una relazione extramatrimoniale stabile con Irachi Castilho. Risultato? 10 figli riconosciuti, 8 dalla moglie e due dall’amante.
La convocazione in nazionale comunque non tarda ad arrivare. L’esordio con la maglia Carioca è datato 1955 ma i mondiali di Svezia del ‘58, quelli dopo il Maracanzo e l’eliminazione rovinosa del 54 in Svizzera, sono la grande occasione.
Prima della partenza però il dottor Carvalho, psicologo della squadra lo definisce come “un uomo con un cervello di un bambino di 4 anni. Inadatto a giocare a calcio”. Per fortuna Vicente Feola, l’allenatore del Brasile, ignora quel parere e quel test sul quoziente intellettivo che assegna a Garrincha un punteggio di 38 su 123. Si vola in Svezia!
La prima partita al mondiale per Manè fu Brasile – Urss. I primi tre minuti di quel match sono poesia. Risultato finale: 2 a 0 per il Brasile. Doppietta di Vavà.
A fare il primo assist al centravanti verde oro è Garrincha, il secondo di un altro esordiente illustre: Edson Arantes do Nascimento, meglio conosciuto come: Pelè.
Da quella vittoria inizia una cavalcata che termina con la conquista della coppa del mondo. La prima per il Brasile.
“Forse era poco intelligente – ha commentato poi Josè altafini, titolarissimo di quella squadra – Feola non gli spiegava gli schemi tanto non li avrebbe capiti. Ma in campo gli veniva tutto naturale, quel mondiale l’ha vinto lui. Pelé ha contribuito al titolo, Didì era il leader, ma Garrincha ha risolto i problemi”.
È un calciatore consacrato ma la fama sembra scivolargli addosso. Non si comporta da star, continua a giocare col Botafogo incrementando il palmarès della sua squadra e nel campetto di paese con i suoi compagni di sempre, compagni più da bancone del bar che di sport.
Continua a bere e ad amare le donne. In Svezia, ovviamente, si era innamorato di una cameriera di 17 anni. Un figlio in più.
Le sue ginocchia minacciano di abbandonarlo ma rifiuta le operazioni, si lascia trasportare dai fatti come se non fosse consapevole delle sue capacità o non gliene importasse poi tanto. Quando il governatore di Rio riceve la squadra per celebrare i campioni del mondo offre a tutti i calciatori dei premi lussuosi: auto, ville. Manè chiede una cosa semplice, che quel passerotto nella gabbia, posto lì come animaletto da compagnia, venisse liberato. Lui è così, sul campo da gioco e fuori: semplice, imprevedibile, inimmaginabile.
Pelé si spiega, Garrincha no. Pelé si osserva e si ammira, Garrincha lo si gusta, lo si ama. Pelé divenne il Dio del calcio… Garrincha ne fu invece la celebrazione.
Così lo ricorda Bruno Barba.
Tra i problemi alle ginocchia e l’abuso di alcol il suo fisico si appesantisce, non sembra uno sportivo. Di certo non sembra un campione del mondo. Eppure viene convocato lo stesso per i mondiali in Svizzera del 58, la missione è una: confermarsi campioni.
Il tridente d’attacco del Brasile che si presenta con una squadra quasi identica a quelle di 4 anni prima è stellare. Vavà, Garrincha e Pelè.
Proprio Pelè però si infortuna durante la seconda partita ed è costretto, a causa di uno strappo muscolare, ad abbandonare la competizione. È il mondiale di manè. Il brio e la fantasia di quella squadra sono affidati alla sua imprevedibilità, alle sue finte e ai suoi dribbling. Garrincha, che non subisce il peso di quella responsabilità, non delude le aspettative.
Seppur appesantito la sua velocità non è svanita e trascina il brasile in semifinale.
Durante quella partita, che i verde ora vinceranno ai danni del cile per 4 a 2, esasperato dai continui falli degli avversari che pur di arginarne le sue cavalcate non si risparmiavano dallo sgambettarlo, si fa espellere per una reazione esagerata. Le regole sono chiare: il brasile è in finale ma Garrincha non può giocarla, è squalificato.
La diplomazia internazionale si mobilita, “Se vincesse la Cecoslovacchia (erno loro gli altri finalisti) sarebbe il trionfo degli eredi di Stalin”, gridano i dittatori brasiliani. E con le dovute pressioni istituzionali sulla Fifa la squalifica viene revocata.
È il 17 giugno del 1962 e il Brasile si impone per 3 a 1 sulla Cecoslovacchia nonostante la brutta partita di Manè e si diploma nuovamente campione.
Il terzo goal, quello della sentenza, neanche a dirlo è ancora una volta di Vavà.
Il Brasile per la seconda volta consecutiva è campione del mondo. Garrincha, l’angelo dalle gambe storte, è per la seconda volta campione del mondo.
Dopo il mondiale del ‘62 Manè incontra la cantante Elza Soares, una la cui storia sarebbe degna di una film. Cresciuta in una favela, violentata a 12 anni e costretta a sposare il suo stupratore, Alauerde Soares, otto figli dei quali tre morti per fame, per lei – comprensibilmente – il canto è sempre stato un atto di ribellione. Manè se ne innamora, lascia la moglie e – nel 1966 – va a vivere con lei. L’opinione pubblica si scaglia contro i due tanto da costringerli a trasferirsi lontano da Rio ma la loro è una relazione è aperta, c’è un inquilino di troppo. Questa volta non sono altre donne a minacciarne la stabilità ma l’alcol, l’unico ostacolo che Manè non è mai riuscito a dribblare.
Garrincha è spesso ubriaco e il 13 aprile del 1969, guidando in stato di ebbrezza è protagonista di un drammatico incidente durante il quale perde la vita Rosária Maria da Conceição, la mamma di Elza. È l’inizio dell’incubo.
Da quel giorno non è più lo stesso. Nega di aver bevuto prima di mettersi alla guida ma viene condannato a due anni di prigione, che però evita grazie alla sospensione condizionale della pena. Vorrebbe scappare ma non ne ha le forze, preferisce provare a mettere fine alla sua storia inalando del gas, non gli riesce neanche quello.
Uno stato di profonda depressione oramai lo avvolge e nonostante i tanti sforzi di Elza, trova un rifugio solo in un luogo: la bottiglia di Cachaca.
Elza lo prende con sè, lo porta a Roma cercando di allontanarlo quanto più possibile dai bar di periferia e cambia il continente ma non la sostanza. Ottiene un incarico al teatro Sistina e mentre lei si esibisce lui beve, intrattenendo i turisti ignari nel centro della città eterna, palleggiando ubriaco con un pallone sgonfio.
Sigla un contratto con una squadra Francese ma non scende mai in campo con loro, si allena con la Lazio e gioca con una squadra della periferia Romana allenata dal suo ex compagno del Botafogo: Da Costa, per 100mila lire a partita
Anche l’istituto brasiliano del caffè prova ad aiutarlo offrendogli un contratto da testimonial ma persino quel rapporto non riesce a decollare.
L’alcol lo logora così come le ombre del suo passato. Le ginocchia lo hanno ormai abbandonato.
“Io nella vita non ho mai avuto fortuna. Ho scelto amici malvagi e ora non ho nessuno. Ho scelto cattivi amministratori per gestire i soldi che ho guadagnato. Mi hanno rubato tutto, e nessuno mi è rimasto accanto. Ho solo Elza”.
I due, esausti, tornano in Brasile sperando di trovare conforto nella terra natia, la situazione di Garrincha è oramai di dominio pubblico. Un banchiere amico di Nilton Santos gli presta un ingente quantità di denaro per saldare i debiti e solo questo gli evita la prigione.
Il 7 dicembre 1973 il Maracanà ospita la sua partita di addio, quella che è stata definita “la dimostrazione pubblica del suo declino”. L’incasso della partita viene devoluto a lui stesso.
Il castello di Manè crolla pezzo dopo pezzo.
Nel 1977 dopo una lite sfociata in percosse, anche il matrimonio con Elza finisce.
Per Garrincha è il colpo di grazia.
L’ultima sua immagine pubblica è su un carro, durante il carnevale di Rio. È seduto lì, in mezzo alla folla, acclamato eppure assente. L’alcol e la depressione, pian piano, lo stanno corrodendo.
“Stavo guardando la tv e quando l’ho visto volevo piangere. La sua faccia sembrava consumata, come se non ci fosse rimasta più vita. È stata una delle cose più tristi che ho mai visto”. Queste sono le parole di Pelè.
Dopo quel giorno lo si è visto solo vagabondare, tra le strade e i bar di periferia, i bordelli e i marciapiedi. Non è insolito che dorma fuori, sperando nella bontà di qualche benefattore. La coppa del mondo, i successi col Botafogo appartengono a un passato troppo lontano.
Ci sono vite che si possono raccontare e altre che, per quanto ci si possa provare, sono impossibile da riassumere.
Quella di Manè rientra sicuramente nella seconda categoria perché lui, di vite, ne ha vissute un milione. Un’ascesa e un declino veloci e inafferrabili, come le sue galoppate sul campo da gioco.
Ogni volta che qualcosa che sembrava stabilizzarsi e lasciarsi capire poi, di colpo, correva via.
Da ragazzo di Favelas a campione del mondo e da star internazionale a ubriacone. Alcune cose non l’hanno mai abbandonato: l’amore per il calcio, quello per le donne e la bottiglia di Cachaça. E seppure con queste costanti, una cosa è certa: chi è stato Garrincha non può tornare a essere Manoel.
Vi ricordate l’inizio di questa storia? Abbiamo iniziato con una cattedrale del calcio e la gioia che si trasformava in lacrime. Esattamente nello stesso modo finisce. Il 19 gennaio del 1983 Manè entra per l’ultima volta nel Maracanà. Ma non lo fa sulle sue gambe, a solcare il manto d’erba è il suo corpo privo di vita. Il suo cuore aveva smesso di battere pochi minuti prima dell’alba a causa dei problemi con l’alcol, dopo l’ennesima notte da sbronzo e vagabondo.
Fu’ Nilton Santos che stabilì come eseguire le sue ultime volontà. Un funerale privato, piccolo, composto. Ma preceduto da un saluto, quello vero, tra le linee da gioco che più di ogni altra cosa aveva amato.
Ancora una volta, lo stadio è pieno. Ancora una volta il brasile è in lacrime.
Solo, povero e abbandonato, era morto, a 49 anni, l’uomo che più di ogni altro aveva regalato gioia a un popolo e all’intero mondo del calcio. L’angelo dalle gambe storte, il passerotto e la sua finta con quello strano modo di volare. L’autopsia rilevò nel suo stomaco tracce di acqua di colonia, aveva bevuto persino quella.
Oggi è sepolto in una tomba come le altre, spoglia e povera nel cimitero Raiz da Serra a Magé. Non c’è niente di particolare se non 7 candele, perennemente accese, per ricordare quello che fu.
Ghiggia, il calciatore del 2 a 1 dell’Uruguay, non poteva sapere che la lista di uomini capaci di zittire uno stadio si sarebbe allungata e forse avrebbe preferito non scoprirlo. Ma una nazione restò in silenzio davanti il suo passerotto che aveva smesso di volare.
Dimenticato, come tutti i poveri; solo, come tutti i più grandi.
Sulla lapide è inciso: qui riposa colui che fu la gioia del popolo.
Garrincha – per quello che ha rappresentato, per quello che era, per ciò che faceva e per come lo faceva – fu gioia. Non portatore di felicità, fu felicità. La incarnava, la conteneva in quello strano copro.
Non era una semi Dio. Era tremendamente umano, con i suoi difetti e le sue contraddizioni. Con la sua follia e la sua imprevedibilità.
L’olimpo e l’immortalità non sono mai stati casa sua.
Dalle favelas a campione del mondo. La gente si identificò in lui, aveva saputo incarnare perfettamente la parabola del brasiliano tipico delle favelas». La sublimazione delle tristezze del popolo. Fu come Davide che sconfisse Golia ma il personaggio biblico poi divenne re d’Israele. In Brasile, il trono, quello d’ “O rei”, era già occupato, da Pelè o dal destino. Ma Pelé si spiega, Garrincha no.
Perché Garrincha fu gioia ma la gioia non dura per sempre. La gioia, corre, dribbla, finta, passa. Si fa dimenticare e lascia, al più, un po’ di nostalgia. Il rimpianto di averla perduta ancor più che la voglia di fare per riconquistarla.
Per questo c’è quel detto brasiliano che dice: ancora oggi, se parli a un vecchio di Pelè, questi si toglie il cappello in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli nomini Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e una lacrima inizia lentamente a solcargli il volto.
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