“Nessuno ha mai pianto davanti una scena senza musica”.
Ha esordito così Goffredo Gibellini, mentre sfoderava il divano violentato da un cane capriccioso e io mi perdevo tra i cavi colorati che si attorcigliavano elegantemente sul banco dello studio tra centinaia di pulsanti, manopole e potenziometri. Nella stanza grande, dall’altra parte del vetro, regnava invece un silenzio assoluto. Due semafori, inspiegabilmente lì, erano fissi sul verde, e decine di tamburi appesi al muro illuminavano delicatamente i microfoni e i leggii.
“Li ho costruiti da solo”, mi ha anticipato Goffredo scoprendomi intento a scrutarli, “ma non sono solo lampade. Servono per illudere, manipolare la realtà; che in fin dei conti è esattamente ciò che facciamo qui.”