Teresìa Karungu Mukuhì è nata in Kenia, ha 45 anni e vive a Roma da cinque. La sua casa è un subaffitto da 300 euro al mese nella zona di Settecamini. A 14 km di distanza, vive sua sorella, che ha perso il lavoro pochi mesi fa: se non troveranno una sistemazione insieme, dovrà tornare in Kenia. Anni fa Teresìa è stata colpita da una meningite che le ha causato danni permanenti, paralizzandole la parte destra del corpo. Ancora oggi soffre di crisi epilettiche, ha gravi difficoltà a camminare e disturbi al sistema neurologico. Per questo è obbligata a seguire delle terapie in centri lontani da casa sua: ogni giorno passa almeno due ore sui mezzi pubblici. Quando non riceve l’aiuto diretto di qualche volontario, sopravvive vendendo oggettini vicino alle stazioni metro di Ponte Mammolo e Rebibbia. Cinque, sei euro al giorno per lei sono la “felicità”. La vera Felicità, la speranza di Teresìa, è tornare in Kenia
insieme a suo figlio Daniel, di cui non ha più la custodia. Questo non avverrà. Teresìa non può tornare nel suo paese, dove non potrebbe ricevere le cure adeguate alle sue malattie, e non può farlo con suo figlio, che probabilmente non vivrà mai con lei. La storia di Teresìa non è diversa da quella di tante altre donne: basta trovare il tempo di fermarsi per ascoltare dei dettagli tristemente simili tra loro. Ma non sono questi dettagli l’elemento centrale: non sono i particolari di un dolore che è così lontano dalla maggior parte di noi da renderci curiosi e indagatori, non è un’espressione che va oltre la concezione di tristezza, non è neppure ciò che caratterizza ognuno di noi: non è un viso. Al contrario di quanto avverrebbe in un normale “ritratto”, il volto diventa un limite al racconto stesso, una barriera esterna a custodire il “dentro”
Per raccontare la vita e il dramma di Teresìa il suo viso non serve e non basta. Non serve a descriverla perché non è il suo viso a distinguerla dagli altri, che infatti non la vedono. E’ un “fumetto” bianco tra gente “bianca”. E il suo viso non basta, perché lei non è solo un viso, non è solo un’espressione pietosa, uno sguardo vuoto o disperato: il fumetto è sorridente. Ma la sua storia c’è, è in lei, anche nel sorriso e a prescindere dal sul volto. Il suo viso non serve e non basta. E non serve soprattutto per conoscere una mamma che ha perso suo figlio e, con lui, il volto-identità di entrambi. Una madre privata del proprio figlio perde una parte di sé, si indebolisce fino a svanire, fino a diventare un fantasma vivente. Un figlio senza madre perde la parte più importante di sé, svanisce con lei e di fatto anche lui diviene un fantasma agli occhi di lei e del mondo.
Tre anni fa Teresìa ha avuto un figlio: il padre ha abbandonato entrambi e Daniel non è più sotto la sua tua tutela. Potevano incontrarsi solo due volte a settimana e asdesso Teresìa non ha neppure questa possibilità. Non riesce ad incontrarlo e anche quando passa del tempo con lui, il suo dramma rimane irrisolto. E’ lì… con lui. Suo figlio le sta davanti ma lei non può affrontare il dolore di averlo perso e non sa metterlo al “centro” per riuscire a guardarlo davvero.
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